Barcellona e sangrie

Barrio goticoBarcellona 1975. Agosto caldo e sonnolento. Montata la canadese e sistemato lo zaino e le altre  poche cose mi ritrovo con gli amici in un locale indefinibile a tarda sera lungo una strada di periferia percorsa in prevalenza da camion. In compagnia di un olandese vicino di tenda che gira l’Europa in bicicletta già da un mese, sono seduto ad un tavolino all’esterno per cogliere un minimo d’aria e gusto una sangria fresca accompagnata da un piatto spropositato di patatine fritte.

Si avvicina a noi uno strano personaggio, evidentemente abituale frequentatore del posto, con un’andatura sbandata di venti gradi come una nave mal caricata e un colorito che fa il paio con le nostre bevande. Dopo aver proferito parole in una lingua solo lontanamente imparentata con lo spagnolo, si rivolge a noi e ci fa capire che il nostro vino è per dilettanti. Lui sì, che sa come beve un uomo! E a garanzia di quanto detto ci snocciola il suo decalogo del bevitore:

  1. Emborrachado
  2. Muy emborrachado
  3. Negaciòn  de la evidenzia
  4. Insulto al clero
  5. Apoteosis final !

Detto ciò si allontana, ritto come un fuso, con un’espressione che solo i filosofi sanno manifestare dopo una profonda lezione di vita. Noi, ancora rapiti da quelle parole, torniamo alle nostre sangrie che improvvisamente ci sembrano diventate acqua minerale.

SagradaLa mattina dopo inizio l’esplorazione della città: prima la Sagrada Familia che vista con gli occhi di un ventenne assomiglia ad un incubo, come se Gaudì l’avesse immaginata dopo una notte di sangria e paella in dosi industriali. Salgo su una guglia in preda a claustrofobia e vertigini per l’assenza di protezioni in corrispondenza dei varchi lungo i percorso.

 

 

StalleProseguo poi verso il centro passando accanto alla plaza de toros dove mi infilo in un vialetto che porta alle stalle dove incontro i maniscalchi che stanno preparando i loro attrezzi e alcuni cavalli pronti per essere ferrati.

Quel giorno niente corrida ma solo preparativi, ma non penso che sarei andato a vedere un simile spettacolo anche se il fascino scatenato dai racconti di Hemingway era tentatore.

BatllòPasso poi per il Paseo de Gràcia e mi faccio venire le vertigini incontrando Casa Batllò che rafforza il mio giudizio nei confronti dell’architetto e poi giù verso il Barrio Gotico e le sue viuzze fino alla cattedrale tetra e spettacolare dove, nella fretta di scattare una foto, mi cade a terra la macchina fotografica ponendo fine al mio modesto reportage.

 

 

ChitarraMi consolo nella Rambla dove in un negozietto angusto acquisto la mia prima chitarra classica per una cifra abbordabile per uno studente dell’epoca ma modesta ai giorni odierni e torno infine in campeggio per gustarmi lo strumento confidando nella clemenza dei vicini di tenda. Non ho un ricordo organico del mio viaggio, solo alcune immagini rese più vivide dalle poche fotografie che all’epoca potevo scattare. Si trattava del primo viaggio all’estero da solo e dovevo ancora affinare la sensibilità del viaggiatore. Scoprivo le cose a mano a mano che mi venivano incontro e spesso non ero preparato a capire che cosa vedessi. Probabilmente è stato una sorta di viaggio iniziatico e, nonostante la sua semplicità ed evidente superficialità, ha  dato il via al piacere di viaggiare che mi accompagna ancora adesso.

Nota:

Fa quasi tenerezza vedere le foto fatte in un’altra epoca, le prime mai scattate e per le quali ho sottratto la macchina fotografica a mia madre. Sapeste gli ululati quando l’ho riportata a casa rotta… Ora, con un qualsiasi telefono, chiunque può scattare foto meravigliose ma, all’epoca, per ottenere qualcosa di buono occorreva percorrere una lunga strada disseminata di errori. Ecco: metto in mostra le mie vecchie foto sgangherate perché è da quelle che sono partito e sono quindi parte di me.

Mangiare o non mangiare

MangiareMangiare, o non mangiare, questo è il problema:
se sia più nobile nella mente soffrire
colpi di forchetta e spiedi d’atroce cottura
o prender posate contro un mare di portate
e, opponendosi, por loro fine? Assaggiare, gustare…
nient’altro, e con un desio dire che poniamo fine
al dolor del ventre e ai mille tumulti naturali
di cui è erede la carne: è una conclusione
da desiderarsi devotamente. Morire, dormire.
Dormire, forse sognar le tavole. Sì, qui è l’ostacolo,
perché in quel sonno di bramosia quali tavole imbandite possano venire
dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio di concupiscenza
Ciò deve farci riflettere. E degustare.

 

Il pane

PaneHo sempre avuto una predilezione per il pane. A volte, quando è veramente buono me lo gusto da solo anche a fine pasto come fosse un dolce. Da bambino ne mangiavo uno speciale che veniva fatto in campagna da alcuni parenti e che per me costituiva una delle delizie delle vacanze estive.

Naturalmente non si può competere con un forno a legna, ma ricreare alcuni profumi e gesti di un tempo sicuramente si. Il mio primo pane segue una ricetta semplice e tutto sommato veloce che nei prossimi esperimenti andrò a modificare provando varie combinazioni di farine e tecniche di lievitazione. In questo caso ho realizzato un pane bianco a singola lievitazione.

Mi chiudo in cucina per evitare sbalzi di temperatura e controllo di avere tutto l’occorrente: 4 etti di farina, una bustina di lievito di birra (che uso anche per la pizza), zucchero, sale, olio e un bicchiere d’acqua.

Metto a scaldare l’acqua in modo che diventi un po’ più che tiepida e vi verso la bustina di lievito insieme ad un cucchiaino raso di zucchero, mescolo per un po’ per sciogliere i grumi e lascio qualche momento tranquillo il lievito.

In una terrina intanto verso la farina, un cucchiaino colmo di sale e tre cucchiai di olio. Quando il lievito nel bicchiere ha prodotto un po’ di schiuma, lo verso nella terrina ed inizio a legare gli ingredienti usando la forchetta finché questi si amalgamano in un impasto che assorbe tutta la farina. All’occorrenza aggiungo un po’ di acqua per  prendere tutta la farina o altra farina se l’impasto risultasse troppo umido.

Al termine l’impasto risulta omogeneo e desideroso di riposarsi. Lo lascio in pace per 45 minuti dentro la terrina, coperta con più strati di salviette, giusto il tempo per godersi un CD o il capitolo di un libro.

Dopo il riposo l’impasto mostra i muscoli e appare più prorompente che mai, così premio il suo impegno disponendolo su un pezzo di carta da forno e quindi in forno. Seleziono i 200 gradi e mi dimentico delle sue proteste per 20 minuti, al termine dei quali vado a vedere le sue condizioni e con fare sadico introduco uno stuzzicadenti nella pagnotta per vedere quanta umidità sia ancora presente all’interno.

Indifferente alle proteste, decido di lasciarlo dorare ancora una decina di minuti finché spengo il forno, lo apro ed estraggo la pagnotta diventata scura dalla rabbia per un simile trattamento ma che nasconde dentro tanta morbida golosità.

Occorre aspettare qualche momento prima di tagliarlo a fette perché il coltello con la complicità del calore potrebbe alterare la consistenza soffice della mollica. Ma è solo un attimo che passa annusando l’aria e pregustando le delizie di un pane appena sfornato.

Pane