Io e il mondo

Vorrei raccontarvi un episodio capitatomi, per far capire il mio bizzarro rapporto con il mondo: questa mattina ho fatto un po’ di spesa al supermercato, giusto per tenermi in esercizio; al termine, visto che c’era una coda infinita ai caselli (le casse) ho pensato di servirmi di quelle automatiche, avendo solo una manciata di pezzi da pagare. Naturalmente, per cinque pezzi ho fatto intervenire due volte l’inserviente: una perché avevo fatto un gesto non previsto dal macchinario e l’altra perché era andato in confusione tant’è che ha dovuto resettare.

Ma non mi sono scomposto, ho messo tutto nel sacchetto di plastica portato da casa e mi sono avviato verso l’uscita con la modalità della mente impostata su “mi faccio gli affari miei, tanto il mondo gira anche senza che lo sorvegli”. Qui il sistema ha congiurato contro di me impedendomi di oltrepassare la sbarra. Intendiamoci, non mi sono accartocciato contro la sbarra perché viaggiavo alla velocità di un bradipo ma, non contento del primo rifiuto, ho tentato una seconda volta di uscire afferrando il vile metallo della porta come si brandisce la Durlindana. Ma niente da fare.

Poi, dietro di me, arriva un signore dotato di sorriso gentile e un aspetto decisamente poco italico che una prima ricognizione visiva mi ha fatto inquadrare come extracomunitario. La lingua parlata con l’amico, in effetti non era molto altoatesina, anzi, sicuramente molto diffusa nel Maghreb. Ma a parte queste considerazioni geografiche, il gentile signore, con un terribile accento, mi dice: “Vada, apro io!”. E, così dicendo, avvicina il proprio scontrino al sensore ottico posto su un paletto a fianco della porta di uscita. Questa si apre e lui prosegue: “Naturalmente, se lei ha pagato…”. Capisco che a questo punto la cosa possa sembrare un tantino surreale ma, con aria assolutamente compunta, è stato mio dovere mostrargli il mio scontrino che, per fortuna, ha garantito per me, noto taccheggiatore di supermercati.

Il signore si è dimostrato soddisfatto e mi ha anche spiegato in un italiano terrificante ma comprensibile, che sullo scontrino c’è un codice a barre e che, presentandolo al preposto lettore, attiva il sistema di uscita. Ho ringraziato ancora il mio salvatore e proferito ancora alcune frasi di circostanza mentre insieme ci allontanavamo dal luogo infernale; lui sempre sorridente si è rimesso a parlare in arabo al suo amico e io a interrogarmi sulle mie capacità.

 

Ti accorgi

E ti accorgi in un istante che la vita è ormai alle tue spalle e che hai aspettato invano. E ti senti come Biarritz in inverno, con il gelo nelle ossa e la faccia frustata dalla salsedine. I soli assaggi di futuro sono fatti di passi incerti e di panchine a sorreggere il corpo stanco e continui a dover obbedire. Alla natura.

Lo Zen e l’arte dei fornelli

Quando chiedevo a mia nonna come si facesse un certo piatto lei regolarmente mi rispondeva:

“Si fa”.

Intendendo dire che si trattava di ricetta semplice e che quasi si “sarebbe fatta” da sola.

Ma per me, da ragazzo, quel “si fa” insieme alle indicazioni quasi alchimistiche delle dosi ed ai gesti esoterici per combinare gli ingredienti, rappresentava un mondo affascinante e misterioso.

Mi diceva: – Non pensare alla ricetta e alle dosi, ma concentrati e immagina il piatto finito. I gesti verranno spontanei e alla fine il piatto si compirà senza che te ne sia accorto.

Ora, a distanza di tanti anni e rivivendo quei gesti e quelle parole, ho più l’impressione di aver vissuto con un maestro Zen piuttosto che con una grande cuoca tosco-emiliana; ma penso che avesse ragione lei: dopo anni di esercizio quotidiano la sua cucina era diventata poesia e i gesti, ridotti all’essenziale, una forma d’arte che ora so apprezzare.