Le unità di misura in cucina

La fantasia delle cuoche italiane ha prodotto nel tempo un elenco spettacolare di modi per indicare le dosi da utilizzare in cucina. Fin da piccolo, nei dialoghi tra mia nonna e mia madre spuntavano termini che nella vita quotidiana avevano per me un senso preciso ma che immerse in un contesto culinario diventavano parole mistiche da iniziati alle arti oscure.

Sentivo dire frasi come “mettine solo un’ombra” oppure “aggiungi un punto di sale”; il “pizzico” poi, mi ha evocato nel tempo altri gesti decisamente estranei alla cucina. La “presa” non aveva nulla a che fare con il tabacco che si usava in campagna all’epoca né alle mani di una partita a carte, mentre la “spruzzata”, lungi dall’evocare immagini rinfrescanti, era riservata sia a liquidi, sia a spezie o sale.

La precisione delle indicazioni in una ricetta riflette il rigore del cuoco. Alla domanda: “quanto ne metto?” la risposta più comune potrebbe essere: “mettine un po’, io vado ad occhio”. Sono cose che infondono sicurezza ad uno che si avvicina per la prima volta all’arte della cucina.

Quanto all’olio, il suo metro per eccellenza è il “filo”: mai saputo quanto abbondante né quanto duri la mescita di “un filo d’olio”.

Inoltre ci sono i termini legati alle misure antropometriche. Mia nonna mi diceva: “un dito” e io da piccolo confrontavo la quantità versata e poi il mio dito di bambino e non capivo bene. Il riso ha la sua misura caratteristica nel “pugno”, mentre per altri cibi secchi e sgranati si parla di “manciata”.

Infine, i termini che si riferiscono alla durata: “attimo”, “momento”, “un poco”. Tutto questo per attenersi alla lingua italiana, perché se si iniziasse a scavare nei vari dialetti non basterebbe lo spazio di questa pagina.

Dimenticavo: esiste un termine che è utilissimo in ogni circostanza, sia per indicare tempi, sia per esprimere delle quantità: “a sentimento”.

Prosciutto di Praga al forno

Le storie di famiglia a volte si incrociano con quelle del cibo e certi piatti diventano per incanto una tradizione e portano con se i ricordi. Uno di questi ha una storia inconsueta e nasce da lontano, nel tempo e nello spazio tanto da diventare una favola da raccontare.

C’era una volta uno zio d’America, uno come tanti hanno avuto, vista l’emigrazione verso il Nuovo Mondo e anche io posso dire di averlo avuto nella figura di un fratello della nonna. Naturalmente lei ha avuto altri fratelli e sorelle gironzoloni ma lui, in particolare, è stato quello che ha dato inizio a questa storia gastronomica un’estate di tanti anni fa.

Lo Zione, chef in un ristorante dalle parti di New York, un giorno tornò in Italia in compagnia della moglie e di un prosciutto. Si. Un prosciutto e un’idea. La nonna già sapeva che avrebbe avuto di che preoccuparsi ma era tanta la gioia di avere il fratello vicino che il brivido durò solo un istante. Io ero piccolo ma vedevo un grande trambusto intorno a me alla ricerca di ingredienti di cui in casa nostra, nei primi anni’60, non si conosceva neanche il nome tanto erano foresti.

Questo fu l’inizio e dopo quello passarono molti anni prima che la Ricetta, custodita tra le gioie di famiglia, potesse rivedere l’aria e assaporare i profumi della cottura. Il merito di questa nuova vita fu la Scoperta Del Secolo, fatta in una salumeria nel centro di Trieste,in occasione della consueta visita alla nonna (l’altra nonna): un prosciutto di Praga affumicato esattamente come richiesto dalla Ricetta Dello Zio.

Ecco, è andata così che uno chef genovese d’America, un prosciutto triestino con il nome di Praga e una cuoca genovese hanno dato vita a una tradizione che perdura da almeno quaranta anni.

Lo Zen e l’arte dei fornelli

Quando chiedevo a mia nonna come si facesse un certo piatto lei regolarmente mi rispondeva:

“Si fa”.

Intendendo dire che si trattava di ricetta semplice e che quasi si “sarebbe fatta” da sola.

Ma per me, da ragazzo, quel “si fa” insieme alle indicazioni quasi alchimistiche delle dosi ed ai gesti esoterici per combinare gli ingredienti, rappresentava un mondo affascinante e misterioso.

Mi diceva: – Non pensare alla ricetta e alle dosi, ma concentrati e immagina il piatto finito. I gesti verranno spontanei e alla fine il piatto si compirà senza che te ne sia accorto.

Ora, a distanza di tanti anni e rivivendo quei gesti e quelle parole, ho più l’impressione di aver vissuto con un maestro Zen piuttosto che con una grande cuoca tosco-emiliana; ma penso che avesse ragione lei: dopo anni di esercizio quotidiano la sua cucina era diventata poesia e i gesti, ridotti all’essenziale, una forma d’arte che ora so apprezzare.