Le unità di misura in cucina

La fantasia delle cuoche italiane ha prodotto nel tempo un elenco spettacolare di modi per indicare le dosi da utilizzare in cucina. Fin da piccolo, nei dialoghi tra mia nonna e mia madre spuntavano termini che nella vita quotidiana avevano per me un senso preciso ma che immerse in un contesto culinario diventavano parole mistiche da iniziati alle arti oscure.

Sentivo dire frasi come “mettine solo un’ombra” oppure “aggiungi un punto di sale”; il “pizzico” poi, mi ha evocato nel tempo altri gesti decisamente estranei alla cucina. La “presa” non aveva nulla a che fare con il tabacco che si usava in campagna all’epoca né alle mani di una partita a carte, mentre la “spruzzata”, lungi dall’evocare immagini rinfrescanti, era riservata sia a liquidi, sia a spezie o sale.

La precisione delle indicazioni in una ricetta riflette il rigore del cuoco. Alla domanda: “quanto ne metto?” la risposta più comune potrebbe essere: “mettine un po’, io vado ad occhio”. Sono cose che infondono sicurezza ad uno che si avvicina per la prima volta all’arte della cucina.

Quanto all’olio, il suo metro per eccellenza è il “filo”: mai saputo quanto abbondante né quanto duri la mescita di “un filo d’olio”.

Inoltre ci sono i termini legati alle misure antropometriche. Mia nonna mi diceva: “un dito” e io da piccolo confrontavo la quantità versata e poi il mio dito di bambino e non capivo bene. Il riso ha la sua misura caratteristica nel “pugno”, mentre per altri cibi secchi e sgranati si parla di “manciata”.

Infine, i termini che si riferiscono alla durata: “attimo”, “momento”, “un poco”. Tutto questo per attenersi alla lingua italiana, perché se si iniziasse a scavare nei vari dialetti non basterebbe lo spazio di questa pagina.

Dimenticavo: esiste un termine che è utilissimo in ogni circostanza, sia per indicare tempi, sia per esprimere delle quantità: “a sentimento”.

Lo Zen e l’arte dei fornelli

Quando chiedevo a mia nonna come si facesse un certo piatto lei regolarmente mi rispondeva:

“Si fa”.

Intendendo dire che si trattava di ricetta semplice e che quasi si “sarebbe fatta” da sola.

Ma per me, da ragazzo, quel “si fa” insieme alle indicazioni quasi alchimistiche delle dosi ed ai gesti esoterici per combinare gli ingredienti, rappresentava un mondo affascinante e misterioso.

Mi diceva: – Non pensare alla ricetta e alle dosi, ma concentrati e immagina il piatto finito. I gesti verranno spontanei e alla fine il piatto si compirà senza che te ne sia accorto.

Ora, a distanza di tanti anni e rivivendo quei gesti e quelle parole, ho più l’impressione di aver vissuto con un maestro Zen piuttosto che con una grande cuoca tosco-emiliana; ma penso che avesse ragione lei: dopo anni di esercizio quotidiano la sua cucina era diventata poesia e i gesti, ridotti all’essenziale, una forma d’arte che ora so apprezzare.

Il cuoco di Mandelbrot

Ovvero: i frattali in cucina

Le polpette di pane, fritte, devono sopperire alla povertà dell’impasto con una precisa tecnica di cottura. Più sono irregolari e frastagliate, più sono gustose. Questo si ottiene facendo cadere distrattamente l’impasto nell’olio molto caldo (non troppo) in modo che si cristallizzi nella forma bizzarra con cui è caduto e non abbia il tempo di trasformarsi in piccola pallina tonda. Ecco: la forma innanzi tutto.

Sembrerà cosa banale ma il principio è strettamente collegato al concetto di frattali: la forma bislacca assunta, crea una superficie maggiore di quella che lo stesso impasto avrebbe assumendo una forma sferica, e qui, nei fritti, la superficie è il trucco per garantire un gusto sapido e avvolgente.

E’ evidente che la parte esterna, a contatto con l’olio, sia più croccante e gustosa rispetto a quella interna che, pur essendo cotta, non è stata coccolata a dovere dai grassi in esuberante cottura. Così, più aumenta la superficie rispetto al contenuto, maggiore è la bontà della polpetta.

Degustate, gente. Degustate.