La luna bussò

 

La Luna bussò alle porte del buio. Rispose Venere che, scendendo dal letto in pigiama, diede una pedata al comodino vedendo le stelle. Vide la Luna e subito le andò di traverso. Le due si guardarono attraverso il tempo per un attimo cosmico e Venere disse: “Non abbiamo bisogno di nulla!” e se ne andò altera, bella come una dea assonnata.

Allora la Luna bussò nel sogno di un passante. Rispose il bambino che era in lui e gli occhi pieni di meraviglia la fecero innamorare. Divenne piena anche al primo quarto e illuminò la strada del viandante.
E poi…

e poi il viandante versò una lacrima: mai la Luna gli era stata gentile, ma quella sera lei vide in lui l’oscurità, e gli donò la luce.

Nel tempo si accorse che la luce era già in lui e la Luna fece solo la magia di fargliela scoprire.

Così il viandante sigillò la luce nel suo cuore come un gioiello nello scrigno: gli avrebbe tenuto compagnia durante il cammino.

E il bambino, la donna, il vecchio e tutte le parti della sua anima si risvegliarono nella luce. Tutte insieme iniziarono a parlarsi, a dirsi le cose che erano finite infrattate nei recessi più scuri della mente. Fu uno scoppio di serenità. Alcuni la chiamano illuminazione.

E come pezzi di specchio infranto, l’anima si ricompose, riflettendo per sempre la sua gioia, pur non nascondendo le ombre: perché, si sa, la Luna conosce ogni segreto e sa sempre come indicare il cammino.

Il volo

VoloMi raccontava Lindbergh che il decollo ha sempre rappresentato per lui un motivo di ansia che svaniva solo quando il carrello, con un ultimo sussulto, lasciava la terra per non più ricadervi. Ecco, diceva: il tempo che intercorre tra quell’ultimo tonfo e il momento in cui capisci che non ve ne sarà un altro è il più lungo di cui un uomo possa avere esperienza. Tranne forse quello che segue quando la moglie ti dice: “Dobbiamo parlare”.

In natura esistono innumerevoli momenti di questo genere; non quello della moglie ma quelli dei primi voli, sia che si parta da grandi altezze, sia quelli, forse più faticosi, in cui devi vincere la gravità partendo da terra e conquistando ogni centimetro di cielo guadagnato con il sudore della fronte. O con quello che per gli uccelli rappresenta la fatica.

Oggi ho assistito ad atterraggi simili a quelli dei caccia sulle portaerei, giù il carrello e flaps in posizione, sia decolli scomposti nei quali ti ritrovi a fare il tifo per il povero pennuto che, come raccontava Lindbergh, saltellando sull’acqua, anelava a quell’ultimo balzo per vincere la gravità.

 

Fermata d’autobus

Fermata autobusCherie lo incontrò al termine del suo spettacolo, un tipo interessante, spavaldo, sicuramente rude ma con un sorriso che fa sparire ogni cosa nella stanza. Quando le si avvicinò, lei gli chiese: “Ehi, come ti chiami?” (non si capisce perché la domanda dovesse essere preceduta da “ehi” ma così fu e concediamo a lei, bella come il sole al tramonto, un momento di imbarazzo lessicale).

Lui, cotto come una pera dai modi sinuosi e provocanti di lei, rispose: “Bo”. Questo lasciò lei in evidente stato di perplessità, domandandosi per quale bizzarro caso della vita una persona non fosse a conoscenza del proprio nome; ci pensò su e quello che immaginò non le piacque. Allora scappò prendendo il primo autobus a caso, diretto chissà dove ma, nella speranza, lontano da quel personaggio alla ricerca di sé e della propria identità.

A nulla valse la corsa che fece perché lui, con due passi la raggiunse e salì a bordo proprio nell’istante in cui il mezzo partì. La storia poi narra di un sereno chiarimento tra i due ma ricorda, all’inizio, il dialogo tra Ulisse e Polifemo quando questi chiese a Ulisse: “Come ti chiami?” (all’epoca non si diceva “ehi”) che rispose: “Nessuno”.

Ecco: Cherie, per fortuna, non fu costretta a rispondere alla domanda dell’autista: “Chi ti sta inseguendo?” con un “Bo”.