Pauline

PaulineIl cartello recita: “Pauline Bordeaux, copiste au Musée du Louvre”. Ho incontrato Pauline in Saint-Germain-des-Prés; era un pomeriggio di agosto e, nonostante il caldo, lei era fresca come una rosa. Sempre intenta a sistemare i suoi disegni con l’aiuto di mollette da bucato, appoggiati a un drappo posto su un paio di sedie. Dietro, il carrello della spesa completava il suo atelier mobile. Per quindici euro vendeva piccole riproduzioni di quadri o loro dettagli; ma la vera bellezza era lei e il suo sorriso.

 

Pauline

In auto a Bombay

A Bombay, un po’ fuori dal centro, verso nord.

Nel centro della città si respira un clima automobilisticamente più corretto, ma basta spostarsi verso la periferia che l’istinto dell’automobilista indiano ha il sopravvento scatenando l’innata ingegnosità nella guida del mezzo.
E non è un caso che lì sia consentito installare sugli scooter al posto del portapacchi un seggiolino per bambini come quelli che in occidente vengono montati sulle biciclette in modo che oltre alle 3 persone sedute sulla sella e alla quarta in piedi sulla pedana, un infante possa trovare posto giusto sopra la targa posteriore.

Stavo rientrando in albergo dopo una giornata passata a spasso per il centro, accompagnato dal mio consueto autista Jay quando, percorrendo una strada ormai periferica, l’auto comincia a dare segni di malfunzionamento: il motore si spegne, va a singhiozzo. Lui inizia ad armeggiare spegnendo il condizionatore e spegnendo il motore ad ogni sosta; è evidente che ha dimenticato di fare benzina e i continui sobbalzi fanno affluire male quella che è rimasta.

Naturalmente non ci sono stazioni di benzina lungo quella strada, ma il problema non scompone il mio autista che si sarà sicuramente raccomandato a qualche divinità locale per poter arrivare a destinazione. Intanto seguiamo un autobus sfruttandone la scia, indifferenti alla puzza dei gas di scarico che dobbiamo inalare data la vicinanza dei mezzi; ma la cosa ha vita breve, o la benzina era più scarsa del previsto o la sua divinità non era tanto potente. Lungo un rettilineo avviene l’inevitabile: il motore, stufo di funzionare solo con alcune tracce di gas, si spegne definitivamente.

Contemporaneamente, l’autobus che ci precede mette la freccia in vista della fermata e rallenta; in quelle circostanze, una persona avveduta si sarebbe fermata al margine della strada e sarebbe andata alla ricerca di carburante, ma il mio ineffabile autista pensa invece di proseguire e, a motore spento e sfruttando un po’ dell’inerzia rimasta, mette la freccia per superare l’autobus!
Il sorpasso avviene in un silenzio irreale, senza il rombo del motore, ad una velocità che si riduce sensibilmente a mano a mano che si avanza; io vedo sfilare a fianco a noi il primo finestrino, il secondo finestrino… non arriviamo a godere del terzo finestrino perché in quel momento l’autista dell’autobus, incurante nella nostra silenziosa presenza accanto a lui, mette la freccia e riparte.

Ora il mio autista è leggermente in apprensione e manifesta il suo sentimento nel tipico gesto locale: si mette a suonare il clacson per far notare al collega più grande la nostra manovra. Per tutta risposta l’autobus si mette a suonare indispettito e così di rimando fa il mio autista mentre i due mezzi gareggiano in lentezza affiancati. Passano momenti interminabili in cui, per effetto di un’inesistente discesa o per mano della divinità o del vento favorevole, riusciamo a superare l’autobus mentre tutti i suoi passeggeri sono sporti dai finestrini e ci guardano increduli. Al termine, soddisfatto dell’esito della sua prodezza, il mio autista mette la freccia e si riporta nella carreggiata di marcia per poi fermarsi in uno spiazzo sterrato lasciando proseguire indisturbato l’autobus.

Il silenzio è ormai totale; solo qualche scimmia sugli alberi continua a ridere della scena cui ha assistito e l’autista per nulla scomposto, mi dice di non preoccuparmi che andrà a prendere un mezzo per accompagnarmi a destinazione. Io attendo a fianco della macchina guardandomi intorno gustandomi la vista di quel posto inconsueto e dopo più di mezz’ora vedo arrivare un rottame dalle dimensioni di un autobus, dal colore ruggine… anzi, si tratta proprio di ruggine, senza vetri alle finestre e seguito da un fumo denso come se il mezzo fosse inseguito dalla tormenta; quel “coso” alla fine si ferma vicino a me e, una volta dissolto il nuvolone, riconosco alla guida il mio autista che mi dice di aver rimediato da un “amico” il catorcio fumante.

Mi dice di salire e io con grande spirito di avventura mi addentro nel monolocale semovente ormai privo di sedili e con il fondo cui mancano alcuni pezzi tanto che la strada è ben visibile sotto di me. Senza preavviso parte rombando e io faccio appena in tempo a tenermi a qualche sostegno temendo il tetano; dopo pochi minuti arriviamo a destinazione e ci salutiamo come se nulla fosse successo. Ora capisco perché ci sono così tante divinità in India: sono tutte occupatissime a salvare la gente dagli autisti scellerati.

La Macchina

Nemmeno lui sapeva da quanto si trovasse lì. Un luogo per il quale non esisteva un nome e che era sconosciuto a tutti tranne che al suo unico abitante. Forse è più corretto dire che Emmett abitasse non in un luogo ma in un personalissimo stato mentale fuori del tempo. Si, fuori del tempo perché da sempre si è occupato della Macchina, del suo funzionamento e manutenzione, evitando i paradossi e accertandosi che il Tempo fluisse nella giusta quantità e nella corretta Direzione.

Eppure anche per lui c’è stato un inizio. Tutti i suoi predecessori si erano dedicati con grande cura alla ricerca del proprio successore, persona dalle caratteristiche estremamente particolari, vista la natura del lavoro. Ricordava ancora quando una piccola inserzione sul giornale aveva attirato la sua attenzione:

“Cercasi giovane di buona cultura generale per lavoro a Tempo Pieno. Non sono richieste competenze particolari poiché è previsto un corso di formazione specifico. Saranno apprezzati i candidati disposti a trascorrere lunghi periodi di assenza. Retribuzione interessante”.

Saranno state le parole “Tempo Pieno” ad interessarlo in un momento in cui andava per la maggiore il part-time oppure la “Retribuzione interessante”, ma alla fine lui, single un po’ stagionato e senza legami, aveva risposto all’annuncio chiedendo un colloquio. Come raramente succede, le cose si sono svolte in fretta e, con sua soddisfazione iniziale, Emmett ottenne il lavoro

Solo successivamente si accorse che lavorare alla Macchina del Tempo comportava un sacrificio imprevisto: quello di dover trascorrere la propria esistenza fuori dal tempo e quindi anche fuori dal mondo. Ecco spiegata quella frase dell’annuncio che parlava di “lunghi periodi di assenza”. Tuttavia, l’importanza dell’incarico e la sensazione di avere tra le mani il potere di un dio avevano relegato in secondo piano questo aspetto negativo.

La Macchina produceva il tempo. Ne forniva in quantità esatta per il funzionamento dell’universo e questo succedeva da quando era stata creata. Praticamente funzionava senza avere necessità di alcun intervento, tranne che in alcuni rari casi in cui un’anomalia come un buco nero veniva ad interferire con la quotidianità.

Emmett si sentiva come un vecchio guardiano del faro ai primi tempi gloriosi della marineria, rinchiuso nel suo eremo perché il mondo del mare potesse vivere sicuro. Ormai sapeva tutto del  funzionamento della Macchina, forse meglio dei suoi inventori che ormai erano scomparsi da tempo (che paradosso). Anzi, aveva maturato alcune idee per rendere più versatile l’apparecchio ed escogitato un modo per ridurne le dimensioni dall’intero universo a una piccola borsa portatile.

Durante uno dei rari momenti in cui rimetteva piedi nel mondo per pubblicare il consueto annuncio alla ricerca del proprio successore, Emmet decise di portare con se la borsa con la nuova Macchina per provarne il funzionamento. La prima occasione si presentò quando si trovava in coda per l’inserzione; inizialmente ligio alle regole, si era rassegnato alla lunga fila che lo precedeva, ma poi, folgorato da un’intuizione, immaginò come le cose potessero essere diverse se in quella circostanza il tempo passasse più velocemente!

Subito aprì la borsa e armeggiò con con alcuni comandi, prima con estrema cautela e poi con maggiore sicurezza, accorgendosi che la manovra funzionava; in un istante arrivò il suo turno davanti allo sportello. Con una grande ed evidente eccitazione che stupì l’impiegato, concluse la commissione e uscì per strada tenendo la borsa stretta tra le mani come il suo bene più prezioso.

Rientrato nuovamente nella sua non-esistenza ebbe modo di pensare alle conseguenze immediate di ciò che era riuscito a realizzare e come trarne vantaggio. Era evidente che la sua macchina riusciva anche a catturare il tempo oltre che a produrlo così che potesse essere usata sia per coloro che dicono “vorrei che il tempo non passasse mai” sia per quelli che con angoscia dicono “mi manca il tempo per…”.

Sempre più spesso si assentò dal lavoro per effettuare esperimenti su di sé e le altre persone perdendosi in infiniti ragionamenti e costruendo macchine sempre più piccole e versatili finché un giorno si accorse che qualcosa nella grande Macchina non andava per il verso giusto. Le sue prolungate assenze e la sua distrazione non gli avevano fatto notare i piccoli indizi che col trascorrere del tempo erano diventati un’anomalia seria.

La sua esperienza però lo aiutò a porre rimedio al problema più grave, ma prima la preoccupazione e poi l’euforia per aver risolto il guaio non gli fecero notare altre perturbazioni nate in coincidenza con i suoi esperimenti nel mondo.

Finalmente, nonostante la sua relativamente giovane età, riuscì a trovare un successore e a liberarsi di un incarico che negli ultimi tempi sentiva come una prigione, visti gli sviluppi promettenti della sua invenzione. Ritornato a casa iniziò a produrre alcune copie della nuova macchina portatile cui limitò alcune funzioni e ne vendette una a John Harrison con la quale egli vincerà anni dopo, nel 1764 il premio messo in palio dalla Commissione per la Longitudine istituita nel 1714 dal Parlamento inglese.

Contemporaneamente fu impegnato nell’anno 789 a trattare con Carlomagno la fornitura di un certo numero di clessidre e, visto il successo, intraprese una vera e propria carriera di venditore del Tempo che lo portò un po’ ovunque nel mondo.

Pochi anni dopo, nel 1582, convinse Gregorio XIII ad usare i suoi sistemi di misura ma quello, non contento, si montò la testa e rivoluzionò il calendario dimenticandosi 10 giorni nella conversione dal vecchio al nuovo. Emmett li prese con se non sopportando che il tempo venisse sprecato così e, duramente colpito da ciò che le persone possono fare col Tempo se ne hanno l’occasione, decise di ritirarsi dalla propria attività.

Siamo ormai nel 2000 e, in quel luogo senza tempo Marty, il successore di Emmett, sta impazzendo davanti ai controlli della Macchina. Una enorme serie di anomalie nate dagli esperimenti di Emmett vengono segnalate un po’ ovunque portando il Tempo fuori controllo: gli egiziani sostengono di essere nell’anno 6236, gli ebrei nel 5760, per i Maya siamo nel 5119, i vecchi romani (non chiamiamoli antichi perché si offendono) dicono di essere nel 2753, a babilonia siamo nel 2749, i buddisti sostengono di essere nel 2544, i Copti sono pochi e non fanno testo ma dicono che sia il 1716 mentre i Musulmani si ostinano a dimostrare in tutti i modi che siamo nel 1420. Più discreti i Cinesi che, non suggerendo alcun numero, affermano che siamo nell’Anno del Dragone.

E’ un piacevole pomeriggio di primavera e la bambina trotterella contenta intorno alla madre, felice di poter uscire a passeggiare in una bella giornata e speranzosa di potersi gustare il primo gelato della stagione. Passando davanti ad una vetrina la sua curiosità viene attratta da ciò che è esposto e rivolta alla madre strilla euforica:

“Mamma, mamma, me lo compri l’orologio con la faccia di Topolino?”

La mamma guarda incuriosita la vetrina e poi la figlia e le dice:

“Ma Alice, cosa te ne fai?”

E poi, gettando un’occhiata alla sua meridiana da polso le dice:

“Su tesoro, vieni via che si è fatto tardi!”

Dopo un po’ di resistenza la bambina, con la promessa del gelato, si fa portare via e insieme alla madre si allontana dal negozio un po’ fatiscente che in vetrina espone tra mille inutilità un orologio atomico a prezzi incredibili, ma d’altra parte cosa ci si potrebbe aspettare da un negozio la cui insegna dice:

Rolex: antichità.