In auto a Bombay

A Bombay, un po’ fuori dal centro, verso nord.

Nel centro della città si respira un clima automobilisticamente più corretto, ma basta spostarsi verso la periferia che l’istinto dell’automobilista indiano ha il sopravvento scatenando l’innata ingegnosità nella guida del mezzo.
E non è un caso che lì sia consentito installare sugli scooter al posto del portapacchi un seggiolino per bambini come quelli che in occidente vengono montati sulle biciclette in modo che oltre alle 3 persone sedute sulla sella e alla quarta in piedi sulla pedana, un infante possa trovare posto giusto sopra la targa posteriore.

Stavo rientrando in albergo dopo una giornata passata a spasso per il centro, accompagnato dal mio consueto autista Jay quando, percorrendo una strada ormai periferica, l’auto comincia a dare segni di malfunzionamento: il motore si spegne, va a singhiozzo. Lui inizia ad armeggiare spegnendo il condizionatore e spegnendo il motore ad ogni sosta; è evidente che ha dimenticato di fare benzina e i continui sobbalzi fanno affluire male quella che è rimasta.

Naturalmente non ci sono stazioni di benzina lungo quella strada, ma il problema non scompone il mio autista che si sarà sicuramente raccomandato a qualche divinità locale per poter arrivare a destinazione. Intanto seguiamo un autobus sfruttandone la scia, indifferenti alla puzza dei gas di scarico che dobbiamo inalare data la vicinanza dei mezzi; ma la cosa ha vita breve, o la benzina era più scarsa del previsto o la sua divinità non era tanto potente. Lungo un rettilineo avviene l’inevitabile: il motore, stufo di funzionare solo con alcune tracce di gas, si spegne definitivamente.

Contemporaneamente, l’autobus che ci precede mette la freccia in vista della fermata e rallenta; in quelle circostanze, una persona avveduta si sarebbe fermata al margine della strada e sarebbe andata alla ricerca di carburante, ma il mio ineffabile autista pensa invece di proseguire e, a motore spento e sfruttando un po’ dell’inerzia rimasta, mette la freccia per superare l’autobus!
Il sorpasso avviene in un silenzio irreale, senza il rombo del motore, ad una velocità che si riduce sensibilmente a mano a mano che si avanza; io vedo sfilare a fianco a noi il primo finestrino, il secondo finestrino… non arriviamo a godere del terzo finestrino perché in quel momento l’autista dell’autobus, incurante nella nostra silenziosa presenza accanto a lui, mette la freccia e riparte.

Ora il mio autista è leggermente in apprensione e manifesta il suo sentimento nel tipico gesto locale: si mette a suonare il clacson per far notare al collega più grande la nostra manovra. Per tutta risposta l’autobus si mette a suonare indispettito e così di rimando fa il mio autista mentre i due mezzi gareggiano in lentezza affiancati. Passano momenti interminabili in cui, per effetto di un’inesistente discesa o per mano della divinità o del vento favorevole, riusciamo a superare l’autobus mentre tutti i suoi passeggeri sono sporti dai finestrini e ci guardano increduli. Al termine, soddisfatto dell’esito della sua prodezza, il mio autista mette la freccia e si riporta nella carreggiata di marcia per poi fermarsi in uno spiazzo sterrato lasciando proseguire indisturbato l’autobus.

Il silenzio è ormai totale; solo qualche scimmia sugli alberi continua a ridere della scena cui ha assistito e l’autista per nulla scomposto, mi dice di non preoccuparmi che andrà a prendere un mezzo per accompagnarmi a destinazione. Io attendo a fianco della macchina guardandomi intorno gustandomi la vista di quel posto inconsueto e dopo più di mezz’ora vedo arrivare un rottame dalle dimensioni di un autobus, dal colore ruggine… anzi, si tratta proprio di ruggine, senza vetri alle finestre e seguito da un fumo denso come se il mezzo fosse inseguito dalla tormenta; quel “coso” alla fine si ferma vicino a me e, una volta dissolto il nuvolone, riconosco alla guida il mio autista che mi dice di aver rimediato da un “amico” il catorcio fumante.

Mi dice di salire e io con grande spirito di avventura mi addentro nel monolocale semovente ormai privo di sedili e con il fondo cui mancano alcuni pezzi tanto che la strada è ben visibile sotto di me. Senza preavviso parte rombando e io faccio appena in tempo a tenermi a qualche sostegno temendo il tetano; dopo pochi minuti arriviamo a destinazione e ci salutiamo come se nulla fosse successo. Ora capisco perché ci sono così tante divinità in India: sono tutte occupatissime a salvare la gente dagli autisti scellerati.

Fotografia

ConQuando si guarda un’immagine, una fotografia, l’occhio va subito alla ricerca del soggetto, l’attenzione è rapita dall’azione congelata nello scatto; è un fatto istintivo e su ciò si basano tante regole di composizione che vengono insegnate nei corsi di fotografia.

Ultimamente però ho iniziato un po’ casualmente a guardare oltre ed intorno al soggetto; ho scoperto cose sorprendenti nella loro apparente normalità, cose che erano lì da sempre e che erano passate inosservate: le espressioni di persone in secondo piano, persone riflesse in uno specchio in cui si rivelavano in modo più intimo, meno studiato delle pose assunte nella ‘vera’ foto.

Inoltre l’ambiente, la disposizione del contorno, gli oggetti presenti, ci parlano di come è fatta la realtà: ho una foto, scattata a Bombay in casa di amici, in cui fino a poco fa credevo di essere il soggetto: sono al centro della scena, guardo l’obiettivo e tutto intorno vi è un contorno di persone, oggetti e attività.

SenzaSe però mi escludo dalla fotografia, l’immagine che resta assume un significato diverso, più profondo; racconta la storia di una famiglia modesta ma dignitosa che secondo le tradizioni fa sedere l’ospite, ancorché per terra, su stuoie, vicino ai piatti in cui è servito il cibo, al suo fianco sta il capo famiglia che intrattiene l’ospite, più defilato si accomoda il fratello. In ultimo piano c’è la moglie che, se non fosse stato per una mia richiesta di averla con noi, si sarebbe eclissata in cucina a mangiare da sola. I bambini erano un po’ accoccolati qua e là non avendo un posto preciso in questa gerarchia alimentare.

C’era ansia ed aspettativa in quella casa quando sono entrato; io mi consideravo un semplice viaggiatore e mi ritenevo straordinariamente fortunato ad aver ricevuto quell’invito a cena che mi consentiva di vivere il mio soggiorno in modo più ricco. Dopo aver scorrazzato per giorni per Bombay, parlando tra noi con il nostro inglese terribilmente diverso, uno imparato in Italia e l’altro storpiato da una pronuncia influenzata dall’Indi (spesso dicevamo la stessa cosa ma con suoni assolutamente diversi), è arrivato l’invito a cena: offerta proferita timidamente, la sua, ma che ho accettato con gioia.

Sua moglie deve averlo amorevolmente strapazzato per il pensiero di avere un occidentale in casa; si sarà detta: – E ora che cosa gli preparo?! Un pensiero comune a tutte le mogli del mondo. Io ho mangiato i loro piatti di un giorno di festa, con le mani e seduto per terra.

Ero al quarto piano di un condominio grigio senza ascensore, le scale strette e buie percorse, salendo, in mezzo a grida di bambini, musiche di film di Bollywood, profumi di spezie, telegiornali raccontati in una lingua sconosciuta ed armoniosa. L’appartamento, piccolo ed essenziale, mi ha accolto come un re e, nonostante la recente conoscenza, sono stato considerato come un amico vivendo una serata straordinaria.

Tutto ciò non può essere espresso in una fotografia ma, se togli il soggetto e guardi con il cuore, puoi vedere il mondo.