La suora indiana

IndiaNonostante l’abitudine non saprei proprio come definire il modo di guidare in  India. Il primo sentore di diversità l’ho colto al mio arrivo, durante il tragitto dall’aeroporto alla missione che mi avrebbe ospitato. Era mezzanotte passata a Bangalore mentre percorrendo in taxi la strada che porta al centro della città ero immerso un turbinio di attività, rumori di auto, clacson e fumi che a poco a poco mi hanno destato dal torpore del viaggio e dell’ora tarda. Ho vissuto come un sogno quei primi momenti convulsi che però si sono ripresentati quotidianamente ogni volta che mi avventuravo per strada.

Ricordo con stupore e apprensione la suora di aspetto e modi gentili, una figura minuta e in sintonia con la propria micro macchina quando mi ha accompagnato in giro per la città. Vista la guida opposta alla quale siamo abituati, nei primi momenti mi sentivo a disagio occupando quello che pensavo fosse il posto di guida, senza trovare il volante e, sopratutto, il conforto del pedale del freno.

Lei, con gesto sicuro, sale alla destra dell’auto e al posto dei gesti cui siamo abituati, come allacciarci la cintura di sicurezza e controllare l’orientamento dello specchietto retrovisore, la gentile signora afferra un rosario e innesca una sequenza di parole che non intendo ma che immagino siano parte della liturgia del momento. Fatto ciò, ingrana la marcia e parte ad una velocità da Gran Premio uscendo dal cortile dove aveva parcheggiato, incurante dei numerosi passanti che in quel momento transitavano sul marciapiedi davanti a lei.

Questi, come per magia si dissolvono al suo arrivo, quasi allertati da un sesto senso che solo in quei luoghi mistici è presente. Io mi sveglio dalla sorpresa e mi ritrovo a dare dei pestoni col piede destro dove il mio istinto colloca il pedale del freno; poi, rendendomi conto del mio comportamento ridicolo, cerco di darmi un contegno mentre la mia autista affronta la stradina con una serenità e una luce negli occhi che in occidente sarebbe sospetta.

Dopo alcuni tentativi di omicidio, piume di polli starnazzanti e una mucca indolente un po’ seccata da quella frenesia, arriviamo sulla strada principale dove la nostra corsa finisce impantanata in un mucchio di ferraglia fumante e rumorosa che i locali chiamano traffico. Non si capisce bene il senso di marcia perché ciascuno ha la tendenza ad occupare tutti gli spazi vuoti compresa la corsia opposta, incurante dei mezzi che sopraggiungono. In questo ambiente sereno ed educato talvolta capita che qualcuno distolga la mano dal clacson, forse per riposare le dita o forse per indicare a gesti dove vorrebbe mandare il vicino di corsia.

In un ambiente, la strada, in cui ciascuno avanza senza regole apparenti, non c’è discriminazione, si offende e si viene offesi costantemente senza che ciò perturbi gli automobilisti. Le espressioni che vedo sulle facce dei passeggeri dei moto-risciò sono tutte rilassate ed indifferenti alla bolgia, segno della normalità di quel procedere.

Visto questo, penso che il rosario snocciolato dalla mia autista sia stato una sorta di richiesta di perdono preventiva per quello che avrebbe fatto con la sua guida folle e capisco pure gli altarini che i locali pongono sul cruscotto dei propri mezzi; le varie divinità orientali o santità occidentali  devono avere un bel da fare per salvaguardare la salute lungo quelle strade.

Istanbul

IstanbulLo so, a certe cose non si pensa ma poi succede che te le trovi davanti che ti chiamano per nome e devi ammettere che anche tu non sfuggi alle varie tappe della vita. Una di queste si è accorta di me un giorno a Istanbul quando ero serenamente indaffarato alla ricerca di un autobus che mi portasse fuori città. La cosa potrebbe sembrare elementare ma intorno al ponte Galata non si può mai dire e si fa presto a dire: “Chiedi a un autista”,  ti metti a cercare qualcuno che corrisponda allo stereotipo dell’autista, aria scocciata e annoiata, atteggiamento distaccato di superiorità esistenziale e cronico odio verso la categoria dei “passeggeri” ma la ricerca risulta vana e ti accorgi alla fine che gli autobus vengono guidati da persone senza divisa, indistinguibili da qualunque altro soggetto locale. Continua a leggere Istanbul

Il Concerto

StageCSNSono agitato, impaziente e preoccupato. L’aereo è in ritardo ed è già il terzo giro che fa su New York in attesa del permesso di atterrare. Sto vivendo il viaggio con trepidazione perché oggi, per una combinazione del destino, assisterò ad un concerto speciale in Central Park; oggi suonano i miei miti di ragazzo: Crosby Stills & Nash.

 

L’aereo finalmente atterra a JFK, a poche miglia dal centro. Per fortuna niente intralci al controllo passaporti e mi scaravento come un ragazzino attraverso il terminal per prendere al volo un taxi. E’ tardo pomeriggio di un giorno lavorativo qualunque; il momento è speciale solo per me. Il traffico è intenso solo per chi esce dalla città, mentre scorre tranquillo verso il centro. Dico al taxista del mio appuntamento, lui viene dall’ovest, siamo coetanei e quasi ci accomuna questa antica passione.

 

CSN3L’auto vola, imbocchiamo il Queens Midtown Tunnel uscendo in un dedalo inestricabile di svincoli sulla trentasettesima, poi un tuffo a nord sull’ottava avenue mentre il cuore accelera i battiti, incrociamo la Broadway a Columbus Circle con il fiato sospeso e infine, a capofitto, lungo Central Park West.

 

Lungo il percosso si iniziano a sentire le note del concerto e la cosa mi ricorda la fine del film “La musica nel cuore”, stesso posto e stessa emozione; scendo al volo all’altezza della settantaduesima, pago l’autista e lo abbraccio col pensiero per avermi portato fin li in un attimo, accorgendomi solo ora della straordinaria coincidenza di essere sotto il Dakota building, un palazzo mito della città.

CSN4Solo un pensiero va a John Lennon e a Strawberry Fields che attraverso in un fiato. Alla fine, abbracciato ad un albero perché il fisico non regge più mi gusto le ultime canzoni “Deja Vu”, “Helplessly Hoping”: nelle pause durante gli applausi mi avvicino ulteriormente e finalmente li vedo sul palco intonare “Our House”.

 

CSN2Gli spettatori hanno tutti la mia età, cantano sommessamente insieme ai tre gustandosi l’attimo in comune, come se facessero parte del coro della band. Alcuni nonni hanno portato i nipoti piccoli, forse al loro primo concerto, non un evento scatenato, ma quasi una rievocazione più matura di Woodstock.

 

La musica è ormai al termine e con un brivido ascolto il pezzo finale “Teach Your Children”, spettacolare insegnamento di vita e al termine, col fiato sospeso tutti attendiamo in silenzio che l’ultima nota delle chitarre acustiche si dissolva in questa sera di fine luglio. L’urlo finale del pubblico è liberatorio, è la voce di una generazione che ha cantato e pianto insieme in America e io, per qualche istante, ho fatto parte di questo momento.

 

CSN1Ecco, questo è quello che pensavo mentre svolazzavo sopra il JFK mentre in Central Park quel concerto entrava nel vivo. E via assicuro, l’ho sentito tutto, compreso quel tac della puntina sul disco dopo il primo minuto che ormai fa parte del brano. Ho mancato il concerto per qualche ora, colpa delle congiunzioni astrali o di una beffa della compagnia aerea. Chissà.

Ma io ero li oh, se c’ero!